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LE RINUNCE E LE TRANSAZIONI: COME E QUANDO IMPUGNARLE

20 febbraio 2024

Capita spesso che durante il rapporto di lavoro il lavoratore firmi al datore di lavoro delle rinunce o transazioni inerenti diritti di natura retributiva o risarcitoria, siano essi derivanti da disposizioni inderogabili di legge o dai contratti collettivi.

E’ bene sapere che tali rinunce non sono valide, così come stabilito dall’art. 2113 c.c., e che il lavoratore ha tempo sei mesi per impugnarle con qualsiasi atto scritto, idoneo a rendere nota al datore di lavoro la sua volontà.

I sei mesi di tempo concessi al lavoratore decorrono, a pena di decadenza, dalla cessazione del rapporto di lavoro o dalla data della rinuncia o transazione, se quest’ultime sono intervenute dopo la cessazione del rapporto di lavoro.  

Esistono delle transazioni non impugnabili? La risposta è affermativa, in quanto non sono impugnabili le conciliazioni sindacali siglate nelle sedi protette, ovvero in quelle sedi in cui il lavoratore ha potuto usufruire di un’effettiva assistenza e tutela: è il caso, ad esempio, di conciliazioni sottoscritte avanti un conciliatore designato da un’associazione sindacale oppure avanti a una commissione di certificazione, o di una conciliazione giudiziale avanti al Giudice del Lavoro.

Si faccia attenzione comunque: le conciliazioni siglate in sede sindacale diventano impugnabili dal lavoratore, entro i 6 mesi dalla sottoscrizione, se lo stesso dimostra di non aver ricevuto la necessaria assistenza da parte del sindacalista/conciliatore cui ha conferito mandato.

E’ buona norma, quindi, per il lavoratore domandare sempre copia di quanto sottoscrive durante il rapporto di lavoro (avendo attenzione di leggere ciò che si firma), riservandosi eventualmente, prima della sottoscrizione, di chiedere l’assistenza di un avvocato; dal canto suo, al datore di lavoro, soprattutto in caso di rapporti di lavoro giunti a risoluzione, conviene, possibilmente con l'assistenza di un legale, stipulare una conciliazione in sede protetta come sopra indicato, sincerandosi che il lavoratore sia stato adeguatamente informato, al fine di non rischiare eventuali impugnazioni da parte dello stesso.

IL PATTO DI PROVA

22 gennaio 2024

Il patto di prova, ex art. 2096 c.c., è una clausola accessoria del contratto di assunzione, il cui obiettivo è consentire alle parti di valutare l’effettiva convenienza alla definitiva costituzione del rapporto di lavoro.

In altri termini: lavoratore e datore di lavoro verificano, per un certo periodo di tempo, che il rapporto di lavoro “funzioni”.

Può essere inserito in un contratto a tempo indeterminato, a tempo determinato, in un contratto di apprendistato o in un contratto tra lavoratore e Agenzia per il lavoro.

Il patto di prova deve essere riportato per iscritto, tale condizioni è fondamentale in quanto la mancanza di forma scritta ne determina la nullità.

La durata del periodo di prova è stabilita nel CCNL in applicazione, ferma restando la facoltà di ridurre o aumentare tale durata nel contratto individuale, nel rispetto, tuttavia, del limite legale di sei mesi.

Affinchè il patto di prova si realizzi correttamente è necessario che il lavoratore sia inserito nel contesto lavorativo e svolga le mansioni individuate nel contratto.

Durante lo svolgimento del patto di prova è possibile per entrambe le parti recedere liberamente dal contratto, senza obbligo di preavviso; tuttavia, se è stato concordato un periodo minimo di prova, il recesso non potrà avvenire prima della scadenza di detto periodo.

Compiuto il periodo di prova, senza il recesso nè del lavoratore nè del datore di lavoro l’assunzione diviene definitiva e il servizio prestato si computa nell’anzianità di servizio del lavoratore.

IL PATTO DI NON CONCORRENZA

20 novembre 2023

Un elemento accessorio del contratto di assunzione, che rientra tra le c.d. tecniche di fidelizzazione, è il patto di non concorrenza.

Tale accordo, sancito dall’art. 2125 c.c., stabilisce un limite per il lavoratore di svolgere la propria attività per un periodo di tempo successivo alla cessazione del contratto di lavoro.

Ciò che preme sottolineare è che tale patto è nullo se non risulta da atto scritto, se non è pattuito un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro e se il vincolo non è contenuto entro determinati limiti di oggetto, di tempo e di luogo.  

Quanto sopra premesso, implica che il datore di lavoro si obbliga a pagare nei confronti del lavoratore una determinata somma di denaro, a fronte dell’assunzione dell’altro di un obbligo di non fare (ossia di non svolgere una particolare attività). Tale pagamento potrà avvenire con un importo fisso pagato alla cessazione del contratto oppure con un importo mensile saldato in costanza del rapporto di lavoro.

Per quanto riguarda il tempo è bene sapere che il patto di non concorrenza ha una durata massima: 5 anni per i dirigenti e 3 anni per gli altri dipendenti; se viene pattuita una durata maggiore, essa si intende automaticamente ridotta al periodo sopra indicato.

In relazione al luogo, in detto patto devono essere necessariamente indicati i territori in cui il lavoratore si impegna a non operare.

Esiste la possibilità di inserire delle clausole accessorie in caso di inadempimento del patto da parte del lavoratore (clausola penale), in caso di perdita di interesse da parte del datore di lavoro (clausola di recesso), oppure in caso di scelta del datore di lavoro di attivare o meno tale patto (clausola di opzione).

In definitiva, tale patto che, si ripete, opera per il tempo successivo alla cessazione del contratto, ha diversi elementi cui prestare attenzione e i diversi orientamenti dei Tribunali di merito, ne evidenziano la problematicità.

I CONTROLLI DEL DATORE DI LAVORO

16 ottobre 2023

Tema molto dibattuto e complesso, in ambito giuslavoristico, è il potere di controllo del datore di lavoro e i limiti cui lo stesso va incontro. La materia è regolata dall’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori che differenzia gli adempimenti che il datore di lavoro deve svolgere a seconda dello strumento di controllo che si vuole utilizzare. Vediamoli in sintesi:

  • Per l’installazione degli impianti audiovisivi negli spazi di lavoro o del gps sui mezzi aziendali, dai quali deriva anche la possibilità di controllo a distanza dei lavoratori, il datore di lavoro ha necessità di giungere ad un accordo con le rappresentanze sindacali oppure di chiedere un’autorizzazione all’ispettorato territoriale del lavoro, indicando sempre e solo motivi di organizzazione ed esigenza produttiva, di sicurezza del lavoro o tutela del patrimonio aziendale; una volta raggiunto l'accordo con le rappresentanze sindacali o ottenuta la delibera dell'Ispettorato territoriale, il datore di lavoro dovrà informare i dipendenti circa i controlli effettuati sugli strumenti informatici e il trattamento dei dati raccolti.

  • Per tutti gli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione (come i computers o i telefonini aziendali) e per gli strumenti utilizzati per la registrazione di accessi e presenze (come i badges), invece, al datore di lavoro sarà sufficiente informare preventivamente i lavoratori circa i controlli effettuati sugli strumenti informatici e il trattamento dei dati raccolti.  

Si rileva quindi come con la riforma dell’art. 4 dello Statuto dei Lavoratori (modificato con l’art. 23 del D.Lgs. N. 151/2015) si passa da un principio generale di divieto ad un principio positivo dell’impiego dei mezzi di controllo a distanza, tuttavia è bene che il datore di lavoro ne conosca i limiti e le necessarie procedure.

L’INDENNITA’ DI MANCATO PREAVVISO

18 settembre 2023

L’art. 2118 c.c. prevede che, in caso di contratto di lavoro a tempo indeterminato, ciascuno dei contraenti possa recedere, osservando l’obbligo di dare un periodo di preavviso (regolato dai contratti collettivi nazionali, i quali fanno variare tale periodo in base al livello di inquadramento e all’anzianità); durante il periodo di preavviso, il rapporto di lavoro prosegue normalmente, per cui il lavoratore è tenuto ad eseguire la prestazione e il datore di lavoro a pagare la retribuzione.

In mancanza, la parte che recede deve corrispondere all’altra la cosiddetta indennità di mancato preavviso, ossia un’indennità equivalente alla retribuzione che sarebbe spettata per il periodo di preavviso.

L’articolo seguente prevede, tuttavia, che l’obbligo di preavviso non sussiste qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione del rapporto di lavoro; di conseguenza, nel caso di rapporto a tempo indeterminato, in caso di licenziamento per giusta causa, il datore di lavoro è esonerato dall’obbligo di  preavviso e dal pagamento dell’indennità sostitutiva, mentre in caso di dimissioni del lavoratore per giusta causa, quest’ultimo non è tenuto a rispettare l’obbligo di preavviso e ha diritto all’indennità sostitutiva.

Nel caso, invece, in cui sussista tra le parti un rapporto di lavoro a tempo determinato, la disciplina stabilita dall’art. 2119 c.c. non presenta distinzione tra licenziamento e dimissioni in quanto ad entrambe le parti non è consentito recedere dal rapporto prima del termine stabilito, a meno che non si verifichi una giusta causa; in caso contrario, nel contratto a tempo determinato, qualora il datore di lavoro abbia intimato illegittimamente il recesso prima della scadenza del termine, al lavoratore spetterà un risarcimento del danno pari all’ammontare delle retribuzioni che avrebbe dovuto percepire fino alla scadenza naturale del rapporto e, allo stesso modo, il datore di lavoro potrebbe chiedere al lavoratore dimessosi senza giusta causa e anzi tempo rispetto al termine del contratto un risarcimento per un eventuale danno recatogli.

"ARIA" DI FERIE

19 giugno 2023

Il clima pienamente estivo ci spinge a fare delle considerazioni sull’istituto delle ferie.

Innanzitutto, ricordiamo l’art. 36 comma 3 della nostra Costituzione che così recita: “Il  lavoratore  ha  diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi”.

Si tratta, dunque, di un diritto irrinunciabile e ogni lavoratore ha diritto a non meno di 4 settimane annue, anche se i CCNL possono prevedere durate superiori.

Il periodo di 4 settimane deve essere goduto per almeno 2 settimane nel corso dell'anno di maturazione e per le restanti 2 settimane, se nulla è disposto dal CCNL, nei 18 mesi successivi al termine dell'anno di maturazione.

Vige, quindi, un “divieto di monetizzazione” per il periodo legale di 4 settimane: le ferie vanno godute e non possono essere “sostituite” con un’indennità.

Chiediamoci ora:

E’ derogabile tale divieto? Il divieto di monetizzazione è derogabile solo in caso di risoluzione del rapporto di lavoro, per quelle settimane aggiuntive determinate dai CCNL o in caso di un contratto a tempo determinato la cui durata è inferiore all’anno.

Chi decide quando andare in ferie? Il piano di ferie deve essere necessariamente approvato dal datore di lavoro che dovrà bilanciare le necessità aziendali con quelle del lavoratore.

Il lavoratore può essere richiamato dalle ferie? Molti CCNL stabiliscono che è possibile per il datore di lavoro richiamate il lavoratore dalle ferie, in caso di necessità, urgenza e per motivi organizzativi-produttivi, riconoscendo al lavoratore un rimborso spese e/o un trattamento di trasferta e garantendo allo stesso il recupero delle ferie stesse.

MALATTIA E PERIODO DI COMPORTO

11 aprile 2023

Il lavoratore subordinato ha diritto a godere, in caso di necessità, di un periodo di malattia, durante il quale ha diritto alla conservazione del posto di lavoro; tale periodo, la cui misura è determinata dai vari CCNL, si chiama “comporto”. Durante detto periodo, il lavoratore percepirà un’indennità a carico INPS, che potrà essere integrata da una quota a carico del datore di lavoro, secondo quanto stabilito dal CCNL; i primi tre giorni di malattia (denominati “periodo di carenza”), tuttavia, sono totalmente a carico di parte datoriale, senza alcun contributo da parte dell’INPS.

Durante la malattia, il lavoratore del settore privato dovrà rispettare tutti i giorni, compresi i giorni festivi, le fasce di reperibilità 10-12, 17-19, durante le quali potrà ricevere la visita del medico fiscale presso l’indirizzo di residenza o l’indirizzo indicato sul certificato di malattia. Sono esentati, per legge, dalle fasce di reperibilità i dipendenti che debbono seguire trattamenti salva vita oppure che abbiano una invalidità pari o superiore al 67 %, mentre controversa è l’esenzione dalle fasce di reperibilità per patologie psichiche.

Il lavoratore durante la malattia non può compromettere la propria guarigione, ma, se compatibile, può svolgere altra attività lavorativa.

Il periodo di comporto, che potrà essere secco (in caso di un’unica malattia) oppure frazionato (in caso di più malattie) dovrà essere calcolato in base alle indicazioni del CCNL: in un anno civile, 1° gennaio-31 dicembre, oppure in un anno solare, ossia 365 giorni calcolati indietro dall’ultimo evento morboso.

Alcuni contratti collettivi prevedono la possibilità, di fronte a gravi patologie, di ottenere, su richiesta del lavoratore, un aumento dei giorni di comporto e/o un’aspettativa non retribuita.

Superato il periodo di comporto, il datore di lavoro avrà la facoltà di licenziare il lavoratore, il quale avrà comunque diritto all’indennità di mancato preavviso.

LE MANSIONI

13 marzo 2023

A seguito di numerose richieste di consulenza in relazione alle MANSIONI svolte dai lavoratori, che dimostrano l'interesse per tale tematica, ripropongo in sintesi due miei precedenti articoli;  il primo analizza la possibilità di adibire il lavoratore a mansioni inferiori rispetto a quelle di assunzione, il secondo analizza lo svolgimento da parte del dipendente di mansioni superiori.

La prima regola generale prevista dall’art. 2103 c.c. prevede che il lavoratore debba essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto oppure ancora a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento (dirigenti, quadri, impiegati, operai) delle ultime effettivamente svolte.

Vi sono tuttavia due eccezioni: il lavoratore può essere assegnato alla stessa categoria legale ma a un livello di inquadramento inferiore in caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali o se così previsto dal contratto collettivo applicato. In entrambi i casi, il mutamento di mansioni deve essere comunicato per iscritto, a pena di nullità, e il lavoratore ha diritto a conservare il livello di inquadramento e il trattamento retributivo (ad eccezione degli elementi retributivi specifici della precedente prestazione lavorativa). L’assegnazione, invece, del lavoratore non solo a un livello di inquadramento inferiore ma anche a una categoria legale inferiore, con relativo decremento retributivo, potrà avvenire solo a due condizioni: che sia nell’interesse del lavoratore (per conservare il posto di lavoro, per acquisire una diversa professionalità o per un miglioramento delle condizioni di vita) e che la stipula di tale accordo avvenga nelle sedi previste dall’art. 2113 c.c., quarto comma (sindacato, ispettorato territoriale del lavoro), o avanti alle commissioni  di  certificazione. La legge ricorda che il lavoratore ha diritto a farsi assistere da un rappresentante dell'associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato o da un consulente del lavoro o da un avvocato. In caso di avvenuto demansionamento, in assenza dei requisiti sopra esposti, il lavoratore potrà instaurare una causa innanzi al Tribunale del Lavoro, gravando sullo stesso l’onere di provare, tramite i mezzi istruttori (prove scritte o orali, come i testimoni) di essere stato assegnato a mansioni di livello inferiore, domandando la assegnazione alle mansioni e all’inquadramento originari, con eventualmente l’adeguamento della retribuzione dovuta.

La seconda regola generale prevista dall’art. 2103 c.c. sancisce che il lavoratore debba essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto oppure ancora a quelle corrispondenti all’inquadramento superiore, se successivamente acquisite, il medesimo articolo di legge prevede che il lavoratore ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta e quindi al trattamento corrispondente a eventuali mansioni superiori, rispetto a quello per le quali era stato assunto, cui il lavoratore viene adibito.

L’assegnazione alle mansioni superiori diviene definitiva dopo il periodo fissato dal contratto collettivo o, in mancanza, dopo sei mesi continuativi, a meno che il lavoratore esprima una volontà contraria e a meno che l’assegnazione del lavoratore a mansioni superiori sia stata determinata dalla necessità di sostituire un altro lavoratore in servizio.

Nel caso in cui il lavoratore, pur avendone diritto, non venga inserito nel giusto inquadramento potrà instaurare una causa innanzi al Tribunale del Lavoro, gravando sullo stesso l’onere di provare, tramite i mezzi istruttori (prove scritte o orali) di essere stato assegnato a mansioni di livello superiore, domandando l’assegnazione del livello e della categoria legale dovuti, con, eventualmente, la condanna del datore di lavoro al pagamento delle differenze retributive maturate.

IL POTERE DISCIPLINARE DEL DATORE DI LAVORO

13 febbraio 2023

Il Codice Civile negli articolo 2104 e 2105 individua due obblighi contrattuali imposti al lavoratore dal vincolo di subordinazione al datore di lavoro: la diligenza (cui il lavoratore è tenuto per il corretto espletamento della sua attività, utilizzando le dovute cautele e applicando le proprie competenze, osservando le disposizioni  per l’esecuzione impartite dal datore di lavoro o comunque dai superiori gerarchici) e l’obbligo di fedeltà (il lavoratore non può trattare affari in concorrenza con il datore di lavoro, né divulgare notizie sull’organizzazione e sui metodi di produzione dell’impresa o utilizzare tali informazioni per recarle pregiudizio).

La violazione di tali obblighi da parte del lavoratore può dar luogo all’applicazione nei suoi confronti di sanzioni disciplinari, parametrate alla gravità dell’infrazione. In tal caso, in ossequio all’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori, il datore di lavoro è tenuto a contestare al lavoratore l’addebito, sentendo la sua difesa, concedendogli un termine non inferiore a 5 giorni di calendario dalla ricezione della contestazione. Eventualmente il datore di lavoro può sospendere in via cautelare il lavoratore (che continuerà a percepire la retribuzione) sino alla definizione della procedura.

Superata tale fase, il datore di lavoro, se non accetta le giustificazioni presentate dal lavoratore, può irrogare la sanzione (alcuni contratti collettivi prevedono esplicitamente un termine che il datore di lavoro deve rispettare, superato il quale le giustificazioni fornite dal lavoratore saranno considerate accettate ed un’eventuale sanzione comminata illegittima).

Le sanzioni conservative del posto di lavoro che possono essere comminate sono il richiamo verbale (per il quale può non essere rispettato il termine dei 5 giorni di cui sopra), l’ammonizione scritta, la multa (che non può essere disposta per un importo superiore a 4 ore della retribuzione base), la sospensione dal servizio e dalla retribuzione (che non può essere disposta per più di 10 giorni); oltre tali sanzioni si ha il licenziamento disciplinare (per giusta causa).

Qualsiasi di queste sanzioni può essere impugnata dal lavoratore, in particolare il licenziamento disciplinare per giusta causa deve essere impugnato nel termine di 60 giorni.

E’ bene notare che l’art. 7 St. Lav. prevede un limite alla rilevanza della recidiva, stabilendo che “non può tenersi conto ad alcun effetto delle sanzioni disciplinari decorsi due anni dalla loro applicazione”.

I LAVORATORI DOMESTICI: GLI OBBLIGHI DEI FAMILIARI DEL DATORE DI LAVORO

16 gennaio 2023

Capita spesso che, in un rapporto di lavoro domestico, specie se ha visto l’assunzione di una badante, il primo a decedere sia il datore di lavoro.

Rimangono in tal caso insoluti alcuni crediti della lavoratrice, come la retribuzione del mese corrente, i ratei di tredicesima, le ferie maturate ma non godute, il trattamento di fine rapporto e l’indennità di mancato preavviso (per i rapporti non inferiori alle 25 ore settimanali: fino a 5 anni di anzianità, 15 giorni di calendario, oltre i 5 anni di anzianità, 30 giorni di calendario; per i rapporti inferiori alle 25 ore settimanali: fino a 2 anni di anzianità, 8 giorni di calendario, oltre i due anni di anzianità, 15 giorni di calendario).

La domanda sorge spontanea: chi deve provvedere a tali pagamenti?

L’art. 40 del nuovo contratto collettivo, in vigore da ottobre 2020, individua, come persone obbligate in solido per i crediti di lavoro maturati dal prestatore di lavoro nei confronti del datore di lavoro deceduto, i familiari coabitanti, i coniugi, le persone unite da unione civile o da stabile convivenza di fatto ai sensi della L. n. 76/2016 (il cui stato familiare sia certificato da registrazione storico anagrafica).

In mancanza di tali soggetti, gli eredi del datore di lavoro (che abbiano accettato l’eredità) potrebbero essere chiamati quali debitori, gravando sul lavoratore la ricerca degli stessi. Gli eredi potrebbero, quindi, vedersi condannati al pagamento di quelle differenze retributive che, in caso di un rapporto di lavoro regolarizzato, non hanno bisogno di essere provate perché riconosciute dalla Costituzione o nel contratto collettivo nazionale, come la retribuzione ordinaria, i ratei di tredicesima, le ferie maturate e non godute (risultanti dalla busta paga) l’indennità di mancato preavviso e il TFR.

In caso di un rapporto di lavoro non regolarizzato, spetterà al lavoratore provare di essere stato alle dipendenze del datore di lavoro ormai defunto, attraverso prove scritte (come ricevute di pagamento), o orali (come i testimoni), cercando magari di provare anche che gli eredi del de cuius erano a conoscenza, come spesso accade, del rapporto di lavoro, instaurando una causa avanti al Tribunale del Lavoro competente, chiamando come convenuti gli eredi, i quali potranno costituirsi contestando il rapporto di lavoro e domande formulate dal lavoratore.

IL MUTAMENTO DEL LUOGO DELLA PRESTAZIONE LAVORATIVA (II)

21 novembre 2022


Prosegue l'analisi del mutamento del luogo della prestazione lavorativa con 

IL DISTACCO

Si può parlare di distacco quando il lavoratore viene inviato temporaneamente dal proprio datore di lavoro presso un terzo per svolgere una determinata attività lavorativa; ciò avviene per soddisfare un interesse proprio del datore di lavoro (art. 30 Dlgs. 276/2003).

Ci sono quindi tre soggetti all’interno di tale fattispecie: il distaccante, ossia il datore di lavoro che rimane responsabile del trattamento normativo ed economico del lavoratore; il distaccatario, ossia il soggetto presso il quale il lavoratore svolge la propria prestazione lavorativa e, infine, il lavoratore, la cui volontà è ininfluente, ad eccezione di un caso che verrà esaminato.

Elemento fondamentale in tale fattispecie è l’interesse del distaccante, ossia un interesse del datore di lavoro che viene soddisfatto con lo svolgimento della prestazione presso il distaccatario (come un interesse produttivo o organizzativo), che deve perdurare per tutto il tempo del distacco (non è necessaria la predeterminazione).

Il potere del distaccante è limitato in due situazioni:

  • Nel caso di mutamento di mansioni al lavoratore, quando occorre il consenso del lavoratore al distacco

  • Nel caso di distacco del lavoratore a più di 50 km di distanza, quando è necessario che ci siano comprovate ragioni tecniche, organizzative, produttive o sostitutive

Giurisprudenza costante ritiene che, a seguito di distacco, non ci sia l’insorgenza di un nuovo rapporto di lavoro tra il lavoratore e il distaccatario ma solo una modificazione dell’esecuzione dello stesso rapporto di lavoro, nel senso che il lavoratore presta la propria obbligazione temporaneamente in favore non del datore di lavoro (distaccante) ma in favore di un terzo (distaccatario), al quale sono attribuiti così poteri direttivi e disciplinari.

Importante sottolineare come l’interesse del distaccante non può mai consistere nel ricevere un corrispettivo per il passaggio di lavoratori; in tale ipotesi si cadrebbe nella somministrazione (irregolare) di manodopera.

IL MUTAMENTO DEL LUOGO DELLA PRESTAZIONE LAVORATIVA (I)

24 ottobre 2022

IL TRASFERIMENTO

L'art. 13 della Legge n. 30/1970 (Statuto dei Lavoratori) stabilisce che "il lavoratore non può essere trasferito da una unità produttiva ad un'altra se non per comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive" e l'art. 2103 c.c. ribadisce tale concetto.

Il trasferimento deve essere comunicato dal datore di lavoro per iscritto e deve essere altresì motivato, secondo previsioni dei CCNL che spesso prevedono un obbligo di preavviso e il pagamento di indennità e/o rimborsi. 

Il lavoratore ha tempo 60 giorni per impugnare il trasferimento e 180 giorni dall'impugnativa per depositare, a mezzo Legale, ricorso in Tribunale. In tale ipotesi, il Giudice non potrà sindacare il merito della scelta del datore di lavoro, ma dovrà verificare l'esistenza delle condizioni richieste dalle legge e il nesso causale tra tali condizioni e il trasferimento. In assenza di tali presupposti, il Giudice ordinerà la riammissione del lavoratore nella precedente sede di lavoro oltre al risarcimento del danno. Si segnale che è possibile anche iniziare un procedimento cautelare, se l'ordine di trasferimento crea un pregiudizio grave ed imminente al lavoratore.

Ma che cosa si intende per unità produttiva? L'art. 35 dello Statuto richiama la sede, lo stabilimento, la filiale, l'ufficio o il reparto autonomo; la giurisprudenza ritiene invece che si possa considerare unità produttiva qualsiasi segmento dell'organizzazione aziendale dotato di  dotato di indipendenza tecnica ed amministrativa; in alcuni casi, si ricorda, la contrattazione collettiva viene in soccorso dando una propria definizione.

Quello che occorre tener presente è che il trasferimento rappresenta una modifica definitiva del luogo di esecuzione della prestazione lavorativa, diversa dalla TRASFERTA in cui lo spostamento è solo provvisorio. Gli elementi caratterizzanti della trasferta sono infatti la temporaneità, il legame abituale con il luogo di lavoro e la disposizione unilaterale del datore di lavoro; il lavoratore avrà diritto all'indennità di trasferta come da CCNL.

Diverso da quanto visto finora è il caso dei lavoratori trasfertisti, i quali per contratto si obbligano a prestare la propria attività in sedi di lavoro sempre diverse, in quanto eseguono attività lavorative che richiedono la continua mobilità; in tal caso si avrà un'indennità o una maggiorazione sulla retribuzione in maniera fissa.

Seguirà approfondimento sull'istituto del DISTACCO. 

DECRETO TRASPARENZA (DGLS. 104/2022), DOMANDE E RISPOSTE

12 settembre 2022

1. Quale è il fine del Decreto Trasparenza?

Introdurre nuove tutele per i lavoratori, affinchè gli stessi possano accedere a informazioni dettagliate e chiare sugli elementi essenziali e sulle condizioni del rapporto di lavoro.

2. A quali rapporti di lavoro si applica?

In via esemplificativa e non esaustiva: ai rapporti di lavoro subordinato (a tempo indeterminato, determinato, full time o part time), al lavoro intermittente, somministrato, alle prestazioni occasioni, alle collaborazioni coordinate e continuative, ai rapporti di lavoro alle dipendenze della pubblica amministrazione (contrattualizzati e non), ai lavoratori domestici, ai lavoratori agricoli, ai lavoratori marittimi.

3. Da quando?

Dal 13 agosto 2022, o meglio: per i rapporti di lavoro instaurati a partire da tale data, ma anche per i rapporti di lavoro in essere dal 1° agosto 2022. Infatti, il lavoratore assunto a tale data potrà chiedere per iscritto al datore di lavoro/committente di aggiornare o integrare le informazioni riguardanti il rapporto di lavoro (entro 60 giorni dalla richiesta).

4. Cosa comunicare al lavoratore? In  via esemplificativa e non esaustiva:

-       l'identità delle parti ivi compresa quella dei  co-datori;

-        il luogo di lavoro;

-        la sede o il domicilio del datore di lavoro;

-        l'inquadramento, il livello e la qualifica  attribuiti  al lavoratore;

-        la data di inizio del rapporto di lavoro;

-        la tipologia di rapporto di lavoro, precisando in caso di rapporti a termine la durata prevista dello stesso;

-        nel  caso  di  lavoratori  dipendenti   da   agenzia   di somministrazione di lavoro, l'identità delle imprese utilizzatrici;

-        la durata del periodo di prova, se previsto;

-        il diritto a ricevere la formazione erogata dal datore  di lavoro, se prevista;

-        la durata del  congedo  per  ferie,  nonchè  degli  altri congedi retribuiti cui ha diritto il lavoratore;

-        la procedura, la forma e i termini del preavviso  in  caso di recesso del datore di lavoro o del lavoratore;

-        l'importo  iniziale  della  retribuzione  o  comunque  il compenso e i relativi elementi  costitutivi,  con  l'indicazione  del periodo e delle modalità di pagamento;

-        la programmazione  dell'orario  normale  di  lavoro  e  le eventuali condizioni relative al  lavoro  straordinario  e  alla  sua retribuzione (…);

-        il contratto collettivo,  anche  aziendale,  applicato  al rapporto di lavoro,  con  l'indicazione  delle  parti  che  lo  hanno sottoscritto;

-        gli  enti  e  gli  istituti  che  ricevono  i  contributi previdenziali e assicurativi dovuti dal datore di lavoro

5. Come?

Le informazioni devono essere comunicate in modo completo e gratuito, per iscritto, all’atto di instaurazione del rapporto di lavoro, in formato cartaceo oppure elettronico, conservate e accessibili in qualsiasi momento.

6. Fino a quando?

Il datore di lavoro deve conservarne la prova della trasmissione o della consegna per cinque anni dalla conclusione del rapporto di lavoro.

CHI "EREDITA" IL TFR?

6 giugno 2022


Al momento della cessazione del rapporto di lavoro, dovuta a qualsiasi causa, spetta al lavoratore il trattamento di fine rapporto (ex art. 2120 c.c.); l’indennità di mancato preavviso (ex art. 2118 c.c.) non spetta invece al lavoratore in caso di risoluzione del rapporto di lavoro per dimissioni volontarie e licenziamento per giusta causa.

Ma a chi vengono destinate tali competenze in caso di decesso del lavoratore?

La risposta attinge sia al diritto del lavoro che al diritto di famiglia, infatti l’art. 2122 c.c. individua come beneficiari di tali competenze il coniuge (o alla persona dello stesso sesso con cui il lavoratore abbia contratto un’unione civile), i figli e, nel caso in cui fossero a carico del prestatore di lavoro, i parenti entro il terzo grado (es. lo zio, ma non il cugino, il fratello e il nipote, i genitori) e gli affini entro il secondo (es. suoceri, cognati, ma non i nipoti acquisiti).

Le indennità in analisi non entrano nell’asse ereditario (per cui non sono soggette alle imposte di successione) e la loro divisione deve essere fatta secondo accordi fra gli aventi diritto (in mancanza verrà disposta dal giudice che valuterà i bisogni di ciascuno).

E’ possibile per il lavoratore destinare le proprie (future) competenze tramite testamento solo in caso di assenza degli aventi diritto su indicati (come da Sentenza n. 8/1972 della Corte Costituzionale).

ABOLIZIONE DEL GREEN PASS NEI LUOGHI DI LAVORO

2 maggio 2022

Dal 1° maggio a tutti i lavoratori, pubblici e privati, indipendentemente dall'età, non sarà più chiesto di esibire il green pass per accedere ai luoghi di lavoro; va da sè che verrà meno per i datori di lavoro l'onere di controllare i propri lavoratori. 

Rimane l'obbligo della vaccinazione per gli ultracinquantenni ma in caso di violazione rimarrà solo la sanzione amministrativa di 100 euro.

Tuttavia, non è venuto meno, per il settore privato, l'obbligo della mascherina al chiuso e all'aperto, in tutti i casi di condivisione degli ambienti di lavoro, fino a giugno.

Negli ambienti pubblici, invece, l'uso della mascherina è raccomandato quando non vi sono barriere protettive, quando si è in fila, negli ascensori o se si condivide la stanza con un soggetto fragile.

GREEN PASS E LUOGHI DI LAVORO, AGGIORNAMENTO

25 marzo 2022

Dal 1° aprile ai lavoratori over 50 non sarà più chiesto il super green pass (ottenuto con la vaccinazione), ma solo il green pass base (ottenuto con tampone negativo). Tale regola varrà sino al 30 aprile. Il lavoratore non in possesso del green pass base rischierà una multa dai 600 ai 1500 euro.

L'obbligo di vaccino resta fino al 15 giugno per gli insegnanti e le forze dell'ordine, mentre è esteso al 31 dicembre per il personale sanitario.

L’ASSEGNO UNICO UNIVERSALE

14 febbraio 2022

Dal 1° marzo 2022 entrerà in vigore l’assegno unico universale destinato alle famiglie con i figli a carico.

Tale disposizione, che sembra lontana dal diritto del lavoro, in realtà, riguarda anche i lavoratori in quanto comporterà l'eliminazione delle detrazioni IRPEF per i figli a carico (rimanendo tuttavia possibile, in dichiarazione dei redditi, detrarre le spese affrontate per i figli, come quelle mediche o per il trasporto pubblico), nonché dell’assegno unico per il nucleo familiare.

L’assegno unico universale può essere richiesto da tutti i lavoratori dipendenti e autonomi (nonché da disoccupati e pensionati), cittadini italiani/europei, o con permesso di soggiorno purchè residenti in Italia da almeno due anni.

L’assegno è destinato ad ogni figlio a carico dal settimo mese di gravidanza (con domanda però da inviare solo alla nascita dei figli), fino al 21° anno di età (senza limiti, tuttavia, per i figli disabili).

Potrà essere avanzata richiesta di versamento diretto in favore dei figli tra i 18 e 21 anni.

La domanda dovrà essere inoltrata all’INPS ogni anno e, per favorire un corretto calcolo di quanto effettivamente dovuto, dovrà essere munita di modello ISEE (in assenza di modello base l'INPS provvederà ad erogare solo l'importo base).

GREEN PASS SUL LUOGO DI LAVORO: AGGIORNAMENTI

10 gennaio 2022

Dal 15 febbraio 2022, i lavoratori pubblici e privati che hanno compiuto i 50 anni dovranno esibire a lavoro il super green pass, ottenuto o per guarigione da Covid o con la somministrazione del vaccino.

Il dipendente che non sarà in possesso del super green pass verrà considerato assente ingiustificato, senza conseguenze disciplinari, con il diritto alla conservazione del posto di lavoro ma senza stipendio.

L’accesso ai luoghi di lavoro sarà vietato a coloro i quali non saranno in possesso del super green pass e, in caso di violazione, è prevista una multa da 600 a 1.500 euro.

Tutte le aziende, indipendentemente dal numero dei dipendenti, potranno sostituire i lavoratori sospesi, per un periodo di 10 giorni rinnovabili fino al 31 marzo 2022.

PROTOCOLLO PER LO SMARTWORKING: FACCIAMO CHIAREZZA

20 dicembre 2021

Il Protocollo sul lavoro agile, firmato dalle parti sociali al Ministero del Lavoro per il settore privato, fornisce delle “linee di indirizzo” per la futura contrattazione collettiva, sia nazionale che aziendale; vediamone i punti centrali.


Come avviene l’adesione? Su base volontaria ed è subordinata alla sottoscrizione di un accordo individuale.


In caso di rifiuto cosa rischia il lavoratore? Il rifiuto allo smartworking NON integra gli estremi di un licenziamento (né per giusta causa né per giustificato motivo) e NON è rilevante sul piano disciplinare.


Cosa deve prevedere l’accordo individuale? L’accordo scritto deve prevedere:

  • la durata (a termine o a tempo indeterminato)

  • l’alternanza tra i periodi lavorati all’interno dell’azienda e in smartworking

  • l’indicazione se alcuni locali esterni non possono essere utilizzati come base per lo smartworking (i luoghi di lavoro devono garantire la privacy)

  • gli strumenti di lavoro utilizzati (se del datore di lavoro o del lavoratore; in tale ultimo caso può essere previsto di incrementare la sicurezza)

  • i tempi di riposo del lavoratore e le misure per garantire i tempi di disconnessione

  • le modalità di controllo da parte del datore di lavoro sulla prestazione del lavoratore in smartworking

  • le modalità di svolgimento dell’attività formativa (anche per acquisire competenze tecniche e digitali)

  • le forme di esercizio dei diritti sindacali


E’ obbligatorio indicare un preciso orario di lavoro? No, il lavoratore gode di autonomia nel lavoro, ma nei limiti degli obiettivi prefissati e dell’organizzazione indicata dal responsabile. La prestazione di lavoro, tuttavia, può essere articolata in fasce orarie, individuando sempre la fascia di disconnessione.


Il lavoratore può lavorare ore di straordinario? No, non possono essere svolte ore di lavoro straordinario.


Il lavoratore può disattivare i propri dispositivi? Sì, il lavoratore durante le ore di disconnessione nonché nei periodi di ferie, malattia, permessi etc, può disattivare i propri dispositivi.


Il lavoratore ha diritto alla tutela contro gli infortuni sul lavoro e malattie professionali? Sì, anche per le ore di lavoro rese al di fuori dei locali aziendali.


Il lavoratore in smartworking ha diritto allo stesso trattamento retributivo? Sì, il lavoratore ha diritto allo stesso trattamento economico e normativo, ai welfare aziendali, nonché alle stesse opportunità di carriera e formazione.

GREEN PASS SUL LUOGO DI LAVORO: FACCIAMO CHIAREZZA

18 ottobre 2021

Dal 15 ottobre 2021, come noto, per accedere al luogo di lavoro è obbligatorio essere in possesso del Green Pass, la Certificazione verde COVID-19 - EU digital COVID certificate che nasce su proposta della Commissione europea per agevolare la libera circolazione in sicurezza dei cittadini nell'Unione.

Il Green Pass attesta una delle seguenti condizioni: 1) essersi sottoposti alla vaccinazione anti COVID-19, 2) essere negativi al test molecolare o antigenico, 3) essere guariti dal COVID-19 negli ultimi sei mesi.


- In che ambiti è stata estesa la Certificazione? Tutti, dal settore pubblico al privato, lavoratori autonomi e domestici compresi.

- Sono soggetti alla Certificazione anche coloro che hanno un contratto esterno? Sì, sia che prestino attività lavorativa sia che prestino attività di formazione o volontariato.

- Chi, tra i lavoratori, rimane escluso dall’obbligo di Green Pass? Coloro i quali hanno una certificazione medica di esenzione dal vaccino.

- Su chi grava il costo del tampone? Il datore di lavoro non ha l’obbligo di pagare il tampone al lavoratore, per cui quest’ultimo deve sostenerne i costi.

- Chi ha l’obbligo di controllo? Sempre i datori di lavoro; coloro che hanno un contratto esterno devono essere controllati anche ove prestano servizio.

- Come sono effettuati i controlli? Su tutti i lavoratori oppure a campione, possibilmente prima dell’accesso al luogo di lavoro, da soggetti individuati dal datore di lavoro con atto formale.

- Il datore di lavoro può chiedere ai lavoratori di comunicare in anticipo se avranno il Green Pass? Sì, per esigenze organizzative.  Cosa rischia il lavoratore che non risponde? Il lavoratore si espone al rischio di una contestazione disciplinare.

- Il datore di lavoro può registrare i dati dei Green Pass, come ad esempio il termine o su che base è stato concesso? No, il datore di lavoro non può raccogliere i dati; in caso contrario, il datore di lavoro si espone all’irrogazione di sanzioni da parte del Garante della Privacy.

- Cosa succede al lavoratore senza Green Pass? Non potrà accedere al luogo di lavoro, sarà considerato assente sino alla presentazione della Certificazione, con diritto alla conservazione del posto di lavoro ma senza diritto alla retribuzione né alla maturazione di altri istituti (ad esempio la tredicesima).

- Se il datore di lavoro opta per i controlli a campione, cosa succede se un lavoratore senza Green Pass entra nel luogo di lavoro? Il lavoratore è punito con una sanzione amministrativa da 600 a 1500 euro e si espone a una contestazione disciplinare.

IL DIRITTO DI PRECEDENZA

6 settembre 2021

L’art. 24 del decreto legislativo 81/2015 stabilisce che il lavoratore che abbia prestato attività lavorativa per la stessa azienda, in esecuzione di uno o più contratti a tempo determinato, per un periodo superiore a 6 mesi ha diritto di precedenza nelle assunzioni a tempo indeterminato effettuate dal datore di lavoro entro i successivi 12 mesi con riferimento alle mansioni già eseguite durante i rapporti a termine.

Per le lavoratrici, concorre a conseguire tale diritto di precedenza anche l’eventuale congedo di maternità usufruito nell’esecuzione di un contratto a tempo determinato presso lo stesso datore di lavoro; alle medesime lavoratrici è altresì riconosciuto il diritto di precedenza non solo nelle assunzioni a tempo indeterminato ma anche nelle assunzioni a tempo determinato effettuate dal datore di lavoro, per le mansioni già espletate durante i precedenti rapporti a termine, entro i successivi dodici mesi.

Il lavoratore stagionale, assunto a tempo determinato, ha diritto di precedenza rispetto a nuove assunzioni a tempo determinato da parte dello stesso datore di lavoro per le medesime attività stagionali.

Il diritto di precedenza deve essere richiamato nel contratto di lavoro redatto in forma scritta e può essere esercitato solo se il lavoratore manifesta per iscritto la propria volontà entro sei mei dalla data di cessazione del rapporto di lavoro, con l’eccezione dei lavoratori stagionali per i quali il termine è di tre mesi.

Il diritto di precedenza si estingue una volta trascorso un anno dalla data di cessazione del rapporto di lavoro.

I LAVORATORI DOMESTICI: IL SUPERMINIMO INDIVIDUALE

26 luglio 2021

Tra le controversie più diffuse nel rapporto di lavoro subordinato dei collaboratori domestici vi è quella inerente ai superminimi individuali di miglior favore percepiti dal lavoratore, corrispondenti a quella parte di retribuzione eccedente il minimo contrattuale (previsto dal contratto collettivo di lavoro), che in caso di controversie può assorbire (e quindi compensare) le differenze retributive rivendicate dal lavoratore, il tutto a favore del datore di lavoro.

Facciamo un esempio: l’art. 34 del nuovo contratto collettivo, in vigore da ottobre 2020, prevede che la baby sitter (livello BS) addetta alla cura di un bambino avente fino a 6 anni di età e la badante (livello CS o DS) addetta all’assistenza di più di una persona non autosufficiente abbiano diritto, oltre al minimo retributivo, a un’indennità mensile. Tuttavia, tale indennità potrà essere assorbita dall’eventuale superminimo individuale di maggior favore percepito dalla lavoratrice e riportato in busta paga, a meno che il datore di lavoro non abbia indicato che il superminimo debba essere considerato come una condizione di miglior favore “ad personam” non assorbibile.  

Vale la pena di precisare che, al contrario, gli scatti di anzianità, previsti per i lavoratori domestici ogni biennio presso lo stesso datore di lavoro, fino a un massimo di 7, non sono mai assorbibili dall’eventuale superminimo percepito, così come stabilito dall’art. 37 del CCNL di riferimento.

Di conseguenza, in caso di controversie inerenti spettanze retributive richieste dai lavoratori subordinati domestici, il datore di lavoro che abbia pagato in busta paga un superminimo (ossia una retribuzione eccedente il minimo contrattuale) potrà invocare l’assorbimento delle spettanze richieste, a meno che non abbia indicato tale eccedenza come una condizione di miglior favore per il lavoratore.

Si ricorda che la prova degli avvenuti pagamenti spetta al datore di lavoro, mentre al lavoratore spetta provare i fatti da cui scaturiscono le richieste di pagamento, ossia l’aver lavorato determinati orario (per il riconoscimento, ad esempio, degli straordinari) o l’aver svolto determinate mansioni (per l’inquadramento di livello o per il riconoscimento delle indennità da baby sitter o badante descritte sopra).

IL DIRITTO ALLA DISCONNESSIONE

28 giugno 2021

Nella Legge 61/2021, di conversione del Decreto Legge 30/2021, è stata inserita una norma che rafforza in via generale il diritto del lavoratore, che svolge la propria attività lavorativa in modalità agile (smartworking), alla disconnessione dalla strumentazioni tecnologiche e dalle piattaforme informatiche.

Tale norma è racchiusa nel comma 1 ter dell’art. 2 del sopracitato Decreto Legge (ferma restando, per il pubblico impiego, la disciplina dei contratti collettivi nazionali).

Con tale disposizione si va oltre, quindi, a quanto già stabilito dalla L. 81/2017 (di cui ho già scritto nell’articolo del 22 marzo 2021), nella quale ci si limita ad assegnare all’accordo individuale tra datore di lavoro e lavoratore il compito di individuare “misure tecniche e organizzative” per assicurare la disconnessione; nel Decreto Legge 30/2021 si individua, infatti, un vero e proprio diritto del lavoratore alla disconnessione “necessario per tutelare i tempi di riposo e la salute del lavoratore”. Tempi che hanno come limite solo gli accordi sottoscritti dalle parti e gli eventuali periodi di reperibilità concordati; il che potrebbe significare che, oltre ai periodi di reperibilità stabiliti di comune accordo, il lavoratore non ha l’obbligo di rimanere “collegato” al telefono o al pc.

Inoltre, è previso che il tempo dedicato al riposo non può avere ripercussioni sul rapporto di lavoro o sui trattamenti retributivi, allontanando il lavoratore dal rischio di sanzioni.

Come scrive l’Avv. Aldo Bottini nel suo articolo “Il diritto alla disconnessione va regolato nell’accordo”, pubblicato sul Quotidiano del Lavoro del Sole 24 Ore il 14 maggio 2021, la norma riecheggia il contenuto della risoluzione del Parlamento Europeo del 21 gennaio 2021 nella quale, al fine di regolare in modo uniforme in Europa il diritto alla disconnessione,  si invita la Commissione Europea a presentare una proposta di direttiva dell’Unione; sembra che in questo caso l’Italia abbia voluto anticipare i tempi e conformarsi a una direttiva ancora in elaborazione con un intervento che (magari) potrebbe non essere sufficiente. Sicuramente, allo stato vi è un riconoscimento di un diritto alla disconnessione al fine di tutelare la salute dei lavoratori, contro la cultura del “sempre connesso”; tuttavia, sarà negli accordi individuali che tali tutele dovranno essere garantite, individuando innanzitutto le fasce di reperibilità e i tempi di riposo, senza perdere l’elemento flessibile di tale modello di lavoro.

IL LAVORO AUTONOMO COORDINATO

7 giugno 2021

L’art. 409 comma 3 c.p.c., sulle controversie individuali di lavoro, assoggetta al rito del lavoro le controversie in materia di rapporti di collaborazione che si concretizzano in una “prestazione di opera continuativa, prevalentemente personale, anche se non a carattere subordinato”. La Legge n. 81/2017 ha aggiornato l’art. 409 comma 3 c.p.c., aggiungendo che “la collaborazione si intende coordinata quando, nel rispetto delle modalità di coordinamento stabilite di comune accordo tra le parti, il collaboratore organizza autonomamente l’attività lavorativa”. Da ciò discende che le forme di coordinamento compatibili sono quelle concordate e previste nel contratto.

A seguito dell’abolizione del contratto a progetto, per impedire il ricorso indiscriminato alle collaborazioni coordinate e continuative, il Decreto Legislativo 81/2015 (modificato dalla L. 128/2019), prevede che si applichi la disciplina del rapporto di lavoro subordinato anche ai rapporti di collaborazione che si concretizzano in prestazioni di lavoro prevalentemente personali, continuative e le cui modalità di esecuzione sono organizzate dal committente. Quindi, in caso di sussistenza di tutti e tre gli elementi (prestazione prevalentemente personale, continuativa e organizzata dal committente) si deve applicare la disciplina del rapporto di lavoro subordinato, con alcune eccezioni, ad esempio in caso accordi collettivi nazionali (per particolari esigenze produttive ed organizzative del settore), di professioni intellettuali con iscrizione presso albi professionali, di pubbliche amministrazioni, etc.

Rimane, quindi, centrale l’organizzazione: se spetta al committente non possiamo essere nel campo del lavoro autonomo. Se concorrono i tre requisiti: prestazioni di lavoro prevalentemente personali, continuative e con modalità di esecuzioni organizzate dal committente, si applica la disciplina del lavoro subordinato.

In conclusione, come già esposto nell’articolo “GLI INDICI DI SUBORDINAZIONE” del 24 maggio 2021, quando si ha etero-direzione (con il vincolo di soggezione del lavoratore al potere direttivo, organizzativo e disciplinare del datore di lavoro) si è nel campo del lavoro subordinato; il coordinamento, invece, è compatibile con l’autonomia quando le modalità di coordinamento sono stabilite di comune accordo tra le parti e previste nel contratto (come da art. 409 comma 3 c.p.c.), mentre quando si ha etero-organizzazione (modalità di esecuzione organizzate dal committente) si ricade nella disciplina del lavoro subordinato (ex art. 2 del Dlgs 81/2015), sempre che le prestazioni di lavoro siano prevalentemente personali e continuative.

GLI INDICI DI SUBORDINAZIONE

24 maggio 2021

Accertare la natura subordinata di un rapporto di lavoro rappresenta il punto di partenza per il riconoscimento di una serie di diritti che, in assenza, al lavoratore non spetterebbero, come, ad esempio, il versamento dei contributi, la retribuzione minima, le ferie, l’indennità di malattia, etc.

L’art. 2094 del Codice Civile afferma che “è prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore”. A tale definizione, coniata nel 1942, si aggiungono le tutele Costituzionali del 1948: la tutela retributiva, assistenziale e previdenziale, nonché la tutela sindacale e il diritto di sciopero.

Per valutare se un’attività lavorativa sia svolta in regime di subordinazione non rileva il “nomen iuris” ossia la dichiarazione contrattuale formulata dalle parti al momento dell’instaurazione del rapporto di lavoro, ma occorre analizzare la volontà reale della parti, che ha determinato il contenuto concreto del rapporto e le effettive modalità di svolgimento della prestazione.

Si dovrà, quindi, valutare la sussistenza di indici di subordinazione, quali la personalità e la continuità della prestazione, nonchè l’inserimento nell’organizzazione produttiva predisposta e diretta dal datore di lavoro con l’assoggettamento al potere disciplinare. Questi ultimi due elementi si concretizzano nella sottoposizione all’emanazione di ordini specifici, reiterati ed inerenti alla prestazione lavorativa, e nella sottoposizione all’attività di vigilanza e di controllo dell’esecuzione delle prestazioni lavorative.

Ulteriori elementi possono essere il vincolo dell’orario di lavoro e di luogo, l’utilizzo di strumenti di lavoro forniti dal datore di lavoro, nonchè la corresponsione della retribuzione con cadenza regolare, senza che sul lavoratore gravi il rischio dell’impresa e senza che lo stesso sia il destinatario del risultato conseguito con la sua prestazione di lavoro.

Occorre precisare che l’onore di provare la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato grava sul lavoratore, il quale dovrà dimostrare principalmente la soggezione al potere gerarchico e disciplinare, in quanto, secondo costante giurisprudenza, la subordinazione non può prescindere da tale requisito.

LE CLAUSOLE ELASTICHE NEL LAVORO A TEMPO PARZIALE

10 maggio 2021

L’art. 6 del decreto legislativo 81/2015 prevede che nel contratto di lavoro a tempo parziale devono essere indicate, puntualmente, la durata della prestazione lavorativa e la collocazione temporale dell’orario; tuttavia, nel rispetto di quanto indicato dai contratti collettivi, le parti possono pattuire per iscritto delle clausole elastiche relative alla variazione della collocazione temporale della prestazione lavorativa oppure relative alla variazione in aumento della durata della prestazione.

In tali casi, il lavoratore ha diritto a un preavviso di due giorni lavorativi (fatte salve diverse intese) oltre a compensazioni (economiche o di altra forma, come i riposi compensativi) determinate dai contratti collettivi. Nel caso in cui il contratto collettivo applicato al rapporto di lavoro non abbia una disciplina sulle clausole elastiche, quest’ultime possono essere pattuite per iscritto tra le parti avanti alle commissioni di certificazione; le clausole elastiche devono prevedere, a pena di nullità, le condizioni e le modalità con le quali il datore di lavoro, dando un preavviso di due giorni lavorativi, può modificare la collocazione temporale della prestazione e aumentare la durata della stessa (nella misura massima del 25% della normale prestazione annua).  Le modifiche dell’orario comportano il diritto del lavoratore ad una maggiorazione del 15% della retribuzione oraria globale applicata.

Importante sapere che il rifiuto del lavoratore di concordare variazioni dell’orario di lavoro non costituisce giustificato motivo di licenziamento.  

IL DIRITTO DEL LAVORATORE AL SUPERIORE INQUADRAMENTO

26 aprile 2021

Tema diffuso e già trattato nel presente blog, è la possibilità per l’azienda datrice di lavoro di adibire il lavoratore a mansioni diverse da quelle per le quali era stato assunto.

La regola generale prevista dall’art. 2103 c.c. prevede che il lavoratore debba essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto oppure a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento (dirigenti, quadri, impiegati, operai) delle ultime effettivamente svolte, oppure ancora a quelle corrispondenti all’inquadramento superiore, se successivamente acquisite.

In relazione all’ultima ipotesi, il medesimo articolo di legge prevede che il lavoratore ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta e quindi al trattamento corrispondente a eventuali mansioni superiori, rispetto a quello per le quali era stato assunto, cui il lavoratore viene adibito.

L’assegnazione alle mansioni superiori diviene definitiva dopo il periodo fissato dal contratto collettivo o, in mancanza, dopo sei mesi continuativi, a meno che il lavoratore esprima una volontà contraria e a meno che l’assegnazione del lavoratore a mansioni superiori sia stata determinata dalla necessità di sostituire un altro lavoratore in servizio.

Nel caso in cui il lavoratore, pur avendone diritto, non venga inserito nel giusto inquadramento potrà instaurare una causa innanzi al Tribunale del Lavoro, gravando sullo stesso l’onere di provare, tramite i mezzi istruttori (prove scritte o orali) di essere stato assegnato a mansioni di livello superiore, domandando l’assegnazione del livello e della categoria legale dovuti, con, eventualmente, la condanna del datore di lavoro al pagamento delle differenze retributive maturate.

Per un approfondimento sul demansionamento si rinvia all’articolo “DEMANSIONAMENTO DEL LAVORATORE: QUANDO È POSSIBILE” (01.03.2021).

COVID-19:
I LAVORATORI ED IL VACCINO

6 aprile 2021

Si discute molto sull’obbligatorietà o meno, per i lavoratori, di sottoporsi al vaccino contro il Covid-19.

Il Codice Civile, all’art. 2087, prevede che “L'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.

Ad una prima lettura, quindi, una volta avuto l’accesso al vaccino, parrebbe che il datore di lavoro possa imporre ai suoi dipendenti la vaccinazione affinchè sia garantita l’integrità fisica di ognuno.

Tale dispositivo, però, deve essere necessariamente letto insieme all’art. 32 della Costituzione che, al secondo comma, stabilisce che “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge” e, al momento, tale legge non esiste (verrà introdotto l’obbligo per le sole categorie sanitarie, con sospensione in caso di rifiuto).

Di conseguenza, all’oggi, sembra evidente che chiunque non abbia un obbligo di legge alla vaccinazione, può rifiutarsi di sottoporsi alla stessa (il primo comma dell’art. 32, “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”, non può considerarsi sufficiente per imporre un obbligo automatico).

Ma cosa potrebbe fare un datore di lavoro, che, su parere medico, si è procurato le dosi di vaccino, di fronte ad un lavoratore che rifiuta la somministrazione?

Il Dott. Raffaele Guariniello, in un interessante articolo pubblicato in IPSOA Quotidiano, ricorda e illustra l’applicazione del TUSL, Testo Unico della Sicurezza sul Lavoro, Decreto Legislativo n. 81/2008.

L’art. 279 del TUSL, prevede, infatti, che il datore di lavoro, su conforme parere del medico competente, deve adottare “misure protettive particolari per quei lavoratori per i quali, anche per motivi sanitari individuali, si richiedono misure speciali di protezione, fra le quali: a) la messa a disposizione di vaccini efficaci per quei lavoratori che non sono già immuni all’agente biologico presente nella lavorazione, da somministrare a cura del medico competente”.

All’oggi è innegabile che il SARSCoV-2 sia stato classificato (dalla Direttiva UE 739/2020), come agente biologico rientrante nel gruppo 3, comprensivo di quegli agenti biologici che, propagandosi nella comunità, possono causare malattie gravi in soggetti umani, costituendo un serio rischio per i lavoratori; di norma, per tali agenti sono disponibili efficaci misure profilattiche o terapeutiche.

Di conseguenza, è palese come il vaccino contro il COVID-19 possa rientrare in quelle misure protettive richiamate dall’art. 279 del TUSL.

Va da sé che la messa a disposizione di tale vaccino non rende obbligatorio per i lavoratori la sottoposizione allo stesso, però, in tal caso, può essere di supporto il secondo comma dell’art. 279, lettera b, che prevede, come ulteriore misura, “l’allontanamento temporaneo del lavoratore secondo le procedure dell’art. 42”.

L’art. 42 stabilisce, infatti, che il datore di lavoro deve attuare le misure previste dal medico competente, con l’individuazione di una possibile inidoneità alla mansione del lavoratore, il quale, ove possibile, può essere adibito a mansioni equivalenti o inferiori (garantendo il medesimo trattamento economico).

A questo punto è evidente che il medico competente non possa sottrarsi dal dichiarare l’inidoneità di quel lavoratore che abbia rifiutato il vaccino messo a disposizione, su parere dello stesso medico, dal datore di lavoro.

Non si trascuri poi il fatto che il datore di lavoro non può ignorare i doveri stabiliti nei suoi confronti dall’art. 18 comma 1 del TUSL: vigilare sul rispetto degli obblighi del medico competente, adibire i lavoratori a una mansione solo se muniti del giudizio di idoneità, affidare i compiti ai lavoratori tenendo conto “delle capacità e delle condizioni degli stessi in rapporto alla loro salute e sicurezza”.

Di conseguenza, il datore di lavoro, avanti al rifiuto del lavoratore di sottoporsi al vaccino, potrà, come soluzione temporanea allontanarlo dal contesto aziendale, e, dove possibile, adibirlo a differenti mansioni; il lavoratore dovrà essere consapevole, in tal caso, che, secondo l’orientamento prevalente della Cassazione, l’obbligo di ricollocazione viene meno se non è compatibile con l’assetto organizzativo datoriale, con un rischio, quindi, di perdere il posto di lavoro.

Tuttavia, non si può escludere la possibilità di adottare, all’interno dell’azienda, misure organizzative contro il rischio Coronavirus per tutelare i lavoratori, in particolari quelli soggetti a controindicazioni al vaccino e quelli che rientrano nella categoria “lavoratori fragili” (con una patologia soggiacente o una malattia cronica), aventi diritto, per primi, allo smart working.

LO SMART WORKING: COME REGOLARLO

22 marzo 2021

Lo smart working, o, per meglio dire, il lavoro agile è regolato dalla Legge 81 del 2017, negli articoli dal 18 al 24. Il lavoro agile viene presentato con l’obiettivo di “incrementare la competitività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro” con una prestazione lavorativa che viene eseguita in parte all’interno dei locali aziendali e in parte all’esterno, senza una postazione fissa.

La Legge prevede che il lavoro agile sia regolato da un accordo tra le parti stipulato per iscritto, disciplinante: l’esecuzione della prestazione lavorativa svolta all’esterno dei locali aziendali, le forme di esercizio del potere direttivo del datore di lavoro, gli strumenti utilizzati dal lavoratore, i tempi di riposo del lavoratore e le misure tecniche e organizzative per assicurare la disconnessione del lavoratore dalle strumentazioni tecnologiche utilizzate.

L’accordo di cui sopra può essere a termine o a tempo indeterminato, con diritto di recesso, in questo ultimo caso, con un preavviso non inferiore a 30 giorni (90 giorni in caso di recesso da parte del datore di lavoro se il lavoratore è disabile). In caso di giustificato motivo, il datore di lavoro e il lavoratore possono recedere prima della scadenza del termine (se l’accordo è a tempo determinato) o senza preavviso (se l’accordo è a tempo indeterminato).

La prestazione lavorativa viene eseguita entro i limiti di durata massima dell’orario giornaliero e settimanale (derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva) e il lavoratore ha diritto ad un trattamento economico e normativo non inferiore a quello applicato ai lavoratori che non usufruiscono del lavoro agile.

Il datore di lavoro deve garantire la salute e la sicurezza del lavoratore che svolge le proprie mansioni in modalità di lavoro agile e, a tal fine, consegna allo stesso un’informativa scritta ove sono indicati i rischi connessi alla particolare modalità di esecuzione del rapporto di lavoro; il lavoratore è tenuto a cooperare all’attuazione delle misure di prevenzione dei rischi.

Il lavoratore ha diritto, altresì, alla tutela contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali dipendenti da rischi connessi alla prestazione lavorativa svolta all’esterno dei locali aziendali, nonché alla tutela contro gli infortuni sul lavoro in itinere (durante il normale percorso tra l’abitazione e il luogo prescelto per lo svolgimento dell’attività lavorativa, quando la scelta di tale luogo sia dettata da esigenze connesse alla prestazione stessa o dalla necessità del lavoratore di conciliare le proprie esigenze di vita con quelle lavorative, purchè tale scelta risponda a criteri di ragionevolezza).

La Legge lascia, quindi, alla capacità (ed alla possibilità) del lavoratore e dell’azienda e dei loro rappresentanti la negoziazione sulla retribuzione (in relazione agli straordinari, ai benefit come l’auto aziendale o i buoni pasto), sul diritto alla disconnessione e sulle pause, sulla dotazione degli strumenti tecnologici (computer, telefono) e sull’organizzazione della postazione lavorativa per la tutela della salute (scrivania, sedia).

Si ricorda che attualmente, si è derogato alla stipula degli accordi individuali per far fronte all’emergenza sanitaria, ma non appena quest’ultima cesserà, il lavoro agile tornerà ad essere oggetto di necessari accordi scritti tra le parti.

DEMANSIONAMENTO DEL LAVORATORE:
QUANDO È POSSIBILE

1 marzo 2021

Tema delicato per il lavoratore e per l’azienda datrice di lavoro è la possibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse da quelle per le quali è stato assunto.

La regola generale prevista dall’art. 2103 c.c. prevede che il lavoratore debba essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto oppure a quelle corrispondenti all’inquadramento superiore, se successivamente acquisite, oppure ancora a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento (dirigenti, quadri, impiegati, operai) delle ultime effettivamente svolte.

Vi sono tuttavia due eccezioni: il lavoratore può essere assegnato a mansioni corrispondenti a un livello di inquadramento inferiore (rispettando la medesima categoria legale) in caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali oppure se così previsto dal contratto collettivo applicato.

In entrambi i casi, il mutamento di mansioni deve essere comunicato per iscritto, a pena di nullità, e il lavoratore ha diritto a conservare il livello di inquadramento e il trattamento retributivo (ad eccezione degli elementi retributivi specifici della precedente prestazione lavorativa).

L’assegnazione, invece, del lavoratore a mansioni corrispondenti non solo a un livello di inquadramento inferiore ma anche a una categoria legale inferiore, con relativo decremento retributivo, potrà avvenire solo a due condizioni: che sia nell’interesse del lavoratore (per conservare il posto di lavoro, per acquisire una diversa professionalità o per un miglioramento delle condizioni di vita) e che la stipula di tale accordo avvenga nelle sedi previste dall’art. 2113 c.c., quarto comma (sindacato, ispettorato territoriale del lavoro), o avanti alle commissioni  di  certificazione. La legge ricorda che il lavoratore ha diritto a farsi assistere da un rappresentante dell'associazione sindacale cui aderisce o conferisce mandato o da un consulente del lavoro o da un avvocato.

In caso di avvenuto demansionamento, in assenza dei requisiti sopra esposti, il lavoratore potrà instaurare una causa innanzi al Tribunale del Lavoro, gravando sullo stesso l’onere di provare, tramite i mezzi istruttori (prove scritte o orali) di essere stato assegnato a mansioni di livello inferiore, domandando l'assegnazione alle mansioni e all’inquadramento originari, con eventualmente l’adeguamento della retribuzione dovuta.

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